Nella sua postfazione al libro lei tratta la storia italiana degli anni ‘50- ‘60 e il tema dell’obiezione di coscienza attraverso gli scritti di Don Milani. Quali ragioni l’hanno portata a tornare alle Lettere?
La Lettera ai cappellani e la Lettera ai giudici sono state stampate in molte edizioni nel corso di questi 52 anni, tuttavia non esisteva ad oggi un’edizione con un apparato di note e un’introduzione, in questo caso una postfazione, che contestualizzasse l’esperienza di Barbiana nel periodo storico nel quale Don Milani ha vissuto. Questo libro vuole rendere sostanzialmente un servizio ai lettori, soprattutto ai più giovani perché possano meglio orientarsi con avvenimenti della storia italiana con i quali potrebbero non avere familiarità. Soprattutto nessuno aveva utilizzato la documentazione della particolare vicenda processuale che coinvolse Don Milani e il direttore responsabile di Rinascita. Se per Milani il processo si concluse con l’estinzione del reato per morte del reo, Luca Pavolini verrà processato in secondo grado e condannato a 5 anni e 10 giorni.
La lezione di Don Milani è un elogio della disobbedienza?
Sembra che la stessa espressione «l’ubbidienza non è più una virtù» sia diventata uno slogan. Don Milani voleva smascherare l’obbedienza cieca, che non si rapporta alla coscienza, e la deresponsabilizzazione dell’esecuzione degli ordini impartita da un’autorità: questo l’elemento più attuale del suo messaggio. Se noi continuiamo a mantenere un’ignoranza diffusa su ciò che è stato è evidente che non possiamo formare delle coscienze. Molti degli esaltatori di Don Milani finiscono per fare della storia un uso propagandistico.
Si discute spesso dell’applicabilità del modello di Barbiana. E’ importante distinguere il messaggio di Don Milani dal suo modello?
Bisogna innanzitutto considerare l’isolamento di Barbiana. Don Milani si trovava in una piccola frazione, difficilmente accessibile, negli anni del dopoguerra. A chi gli chiedeva «cosa bisognasse fare e quali modelli seguire» Milani rispondeva che era un maestro e non un pedagogista. E’ la domanda stessa ad essere sbagliata: il punto “non è cosa bisogna fare ma come bisogna essere”.
Nella spartizione tra detrattori e sostenitori, crede che si riveli una strumentalizzazione politica?
Abbiamo il partito dei detrattori senza fonti che ricavano dalla polemica il loro stesso alimento. Ma il peggio sono coloro che se ne appropriano attribuendo a Don Milani cose che non ha mai detto o pensato, come nel caso della celebre frase di Mazzolari “a che serve avere le mani pulite se si tengono in tasca”. Questo fa parte del pressappochismo diffuso. Se lo cita Salvini e lo cita Renzi dovremmo avere il sospetto che stiano parlando di un Don Milani che non è mai esistito se non nella loro immaginazione.
Affermare che Don Milani fosse contrario alla scuola pubblica è quindi un errore.
Don Milani si rivolgeva alla scuola pubblica del 1965, quella che voleva cambiare era una scuola classista, che non aveva nulla da dare ai suoi ragazzi. Chi guarda al suo modello con gli occhi di oggi rischia di non capire. Don Milani è stato sottoposto a manipolazioni indegne, non accettabili.
Cosa pensa del pellegrinaggio di Papa Francesco a Barbiana e del messaggio di apertura della Chiesa?
Trovo che sia consequenziale al suo magistero di questi anni. L’esempio di Don Milani corrisponde all’ecclesiologia e al ruolo del prete che Papa Francesco sta affermando. Non è una concessione della Chiesa ma un riconoscimento d’identità: ormai a distanza di 50, 60 anni dal nostro presente, Francesco individua in Don Milani e Mazzolari preti esemplari della sua pastorale. Non si tratta di fare un Santo in più.
Si è parlato molto dell’ultimo libro di Walter Siti, Bruciare tutto, e di pedofilia nella letteratura. L’autore avrebbe rintracciato negli scritti di Don Milani una “tensione erotica” nei confronti dei suoi ragazzi. Lei la ritiene una trovata commerciale?
Non so quali ragioni possano averlo spinto a tanto, l’interesse economico è una possibilità. Certo è che non sta bene calunniare un morto.
Per concludere, nelle ultime pagine del suo libro lei insiste sul coraggio di dire la verità, la parrhesia. Ma, per citare Don Milani, “la verità si fa strada da sola” o abbiamo bisogno di una guida?
Non abbiamo bisogno di guide, né di presunti guru. Certo tutti hanno bisogno di aiuto, ma le rivoluzioni per essere profonde devono avvenire attraverso dei lunghi processi che non siano sforzo del singolo ma della collettività. Dobbiamo recuperare la lezione milaniana non “del far da sé far meglio” ma del “fare insieme e ancora meglio”, anche se ovviamente in tempi più lunghi. In fondo la scuola di Barbiana è una struttura di una scuola cooperativa. Quando Milani sostiene e realizza che i più grandi fanno scuola ai più piccoli, intende dire proprio questo. In Lettera a una professoressa si sintetizza questo processo. La scrittura collettiva è un punto d’arrivo. Non è un modello applicato, si arriva alla scrittura collettiva quando viene bandito quello che invece è diventato il mito della nostra società e della nostra scuola: il principio della concorrenza, della competitività. Come lo stesso Papa Francesco ci insegna: «La meritocrazia da merito a quelli che già sanno di più, già possono di più».
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