domenica 12 marzo 2017

Velvet Underground & Nico, i 50 anni dell'album di debutto più clamoroso di sempre

Sesso e droga, bassifondi e poesia. Il 12 marzo del 1967 usciva il primo disco della band di Lou Reed e John Cale
 
 
Di GINO CASTALDO
 
 
DOVESSIMO valutarlo con gli aridi parametri numerici di oggi sarebbe il racconto di un disastro: le radio non volevano passare i pezzi, la stampa reagì inferocita, il disco non vendeva, fu perfino ritirato per questioni legali dovute alla denuncia di uno dei soggetti fotografati nella copertina interna senza autorizzazione. Ma nel tempo è cresciuto come un’opera d’arte immensa e irripetibile, la fotografia sonora del preciso momento in cui il rock stava definendo la sua anima più torbida e inquieta. Velvet Undergound & Nico è molte cose insieme, un sublime segno d’arte, un inno alla depravazione, un intoccabile archetipo per generazioni di rocker antagonisti, ma è soprattutto un disco splendido, integro, spietatamente coerente. Fu tra le altre cose il più clamoroso album di debutto della storia (neanche Dylan e i Beatles esordirono così), intitolato nel modo più scarno, col nome della band e l’aggiunta di Nico, vero nome Christa Päffgen, cantante e attrice tedesca molto poco dotata da un punto di vista vocale, ma fortemente voluta da Andy Warhol perché aveva il giusto tono, sufficientemente distaccato, lugubre e teutonico per aggiungere un tocco d’arte all’arte. 
 
 
 
Warhol lavorò alla celeberrima copertina esattamente come se fosse uno dei suoi quadri, e infatti nella prima edizione nella faccia anteriore c’è solo il suo nome, anzi la sua firma, in calce alla altrettanto celebre banana su fondo bianco, che celava un trucco, geniale e provocatorio, purtroppo perso nelle edizioni successive. Una piccola scritta al lato diceva “peel slowly and see”, e infatti il giallo era un adesivo che si poteva staccare rivelando al di sotto una banana rosa, creando enormi problemi agli stampatori di dischi che dovettero creare un macchinario a parte, tanto per rendere ancora più difficile la già complicata vita iniziale del disco. La trovata aveva implicazioni enormi. L’intuizione di Warhol portava alle estreme conseguenze il pensiero di Benjamin: cos’altro era la copertina di un disco se non una potenziale opera d’arte riproducibile all’infinito, senza che l’originale avesse più alcun valore? Improbabile co-produttore dell’album, in realtà mentore, regista, supervisore maximo del progetto, Warhol di musica non capiva granché, della produzione vera e propria si occupò Tom Wilson, ma il suo suggerimento fu prezioso: la cosa più importante era riprodurre nel miglior modo possibile il suono e l’impatto delle performance alla Factory. I Velvet lo presero alla lettera, crearono un suono fondamentale, modernissimo, primitivo e scevro da ogni retorica, del resto detestavano gli hippies, disprezzavano i sognatori californiani e pur essendo nel pieno dell’estate dell’amore, circondati da colorate esplosioni psichedeliche e da un euforico ottimismo rivoluzionario, scelsero un perfido bianco e nero, preferirono cantare i bassifondi newyorchesi, un sordido mondo di spacciatori e trans.
Il nome del resto l’avevano preso da un tascabile di serie B a tema sadomaso, e per non sbagliare il tema l’avevano ribadito nel pezzo più inquietante e morboso del disco intitolato Venus in furs. A parte Nico, gettata nel mezzo del furore rock dei Velvet un po’ per caso, e del tutto provvisoriamente, i quattro componenti sembravano scelti con cura da un sapiente alchimista: Lou Reed e Sterling Morrison venivano da velleità letterarie coltivate all’Università di Syracuse, ma l’idea della band venne a Lou Reed e John Cale, che invece veniva dall’Europa, aveva esperienze avant-garde con John Cage, suonava la viola e a quei tempi militava nel Theater of Eternal Music di La Monte Young, poi reclutarono Morrison e dopo una prima militanza di Angus MacLise alla batteria chiamarono una donna, per allora una rarità mai vista, una dolce e minuta signorina di nome Maureen Tucker che aveva un temperamento formidabile e si ispirava alle percussioni africane. Ovviamente questo primo album fu anche la culla per il talento sbalorditivo di Lou Reed già ai tempi del debutto perfettamente consapevole della posta in gioco, spudorato, spiazzante, poeta rock, cultore del suono elettrico che già a quei tempi lui paragonava alle più grandi conquiste della storia dell’arte.
 
 
 
 
 
 
 
Il disco si apriva con Sunday morning, paragonabile a una pacata e stralunata visione dopo una notte di bagordi, e si chiudeva col ruggito stravolto di European son, passando per il realismo di I’m waiting for the man, nel quale si specifica anche la cifra (ventisei dollari) che ha in mano il ragazzo in cerca di droga agli angoli di New York, la nera pelle lucida delle “veneri in pelliccia”, la visione fiammante delle adunate artistiche alla Factory in All tomorrow’s parties, la devianza di Femme fatale, il resoconto drammatico di Heroin, squarci di vita, frammenti di poesia che Lou Reed, bontà sua, definiva perfino a tratti speranzosa, empatica, ma soprattutto il segno scarno e preciso di un rigore che ha fatto scuola, senza trucchi, senza circo ed effetti sonori, talmente sobrio e determinato da non invecchiare mai perché dentro non c’è nulla che si possa datare. I duri e puri del rock suonano ancora così, senza bisogno di cambiare nemmeno una virgola.
 
 
 


 

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