La tavola è apparecchiata, l'atmosfera è informale e conviviale; si ride, ci si racconta, si condividono le proprie esperienze e si ragiona sulla società contemporanea e sui massimi sistemi. Stasera in casa Knowles sembra di respirare l'odore dell'incenso e delle candele che Erykah Badu bruciava quando passava le proprie nottate in compagnia dei suoi artsy friends (ricordate l'eterna "Appletree"?). Ma, volendo, si può immaginare anche quello che probabilmente succedeva quando la divina Etta James, negli anni 70, apriva le porte di casa agli artisti squattrinati e dava il via a pazze e sguaiate festicciole a ritmo di disco music.
Certamente la presenza di Solange non è totalizzante come quella delle due Signore nominate qui sopra, ma la sua voce oggi ha acquistato una personale profondità, che la trasporta da eterna piccola di famiglia a figura capace di affermare il proprio pensiero attraverso le situazioni più pluraliste, e senza mai snaturare il parere di nessuno - i paralleli con Janet Jackson, in tal senso, si sprecano.
Si prova quindi un immenso piacere nello scorrere tra le tracce di "A Seat At The Table" e stare ad ascoltare le chiacchiere che animano la tavolata, grazie a una plètora di coloriti ospiti che cantano, raccontano, suonano e danno manforte alla gentile ma all'occorrenza pungente padrona di casa. Il risultato è un senso di comunità che scalda il cuore, un lavoro emotivo, politicizzato e fortemente matriarcale allo stesso tempo, ma che non scade mai in retoriche di sorta. Non v'è alcun bisogno di proclamare slogan a effetto o di alzare inutilmente la voce, dal momento che uno dei requisiti principali per stare alla tavola dovrebbe essere quello di saper ascoltare gli altri, cosa che purtroppo raramente succede ai piani alti. Anche solo per questa sua attidudine, Solange il suo posticino lo merita tutto (nonostante quel famoso incidente dell'ascensore...).
Il disco, infatti, pesca a piene mani dai grandi numi della musica del passato, con Nina Simone e Minnie Riperton elette a madrine della serata, ma allo stesso tempo tiene l'orecchio teso verso la contemporaneità, tramite l'uso di delicati inserti elettrici e una serie di pensose e riflessive presenze maschili rubate al mondo dell'hip-hop. Così, questo neo-soul dalle scarne trame art, trova forse il parallelo più diretto col recente "Freetown Sound" del suo grande amico e collaboratore Blood Orange, e anche se Solange non ha proprio la scrittura cristallina di quest'ultimo, pezzi come "Cranes In The Sky", "Where Do We Go" e "Mad" sono veri e propri solluccheri di delicatissimo soul post-moderno. La curiosa base electro di "Junie", i soffici controcanti in stile Mariah anni 90 di "Don't Wish Me Well" e i punteggi pianistici dell'iniziale "Rise", invece, mostrano un songwriting delicato ed evanescente, ma tutt'altro che povero
Sul lato più comunitario del lavoro, "Borderline (An Ode To Self Care)" conta della presenza di Q-Tip e omaggia lo spirito di Aaliyah, mentre dall'altra parte dell'oceano giunge Sampha a prendere parte alla scrittura e produzione di diversi pezzi, il più bello dei quali è sicuramente "Don't You Wait" (che conta pure la presenza di altri due talenti anglosassoni: Kindness e il felpatissimo basso di Olugbenga Adelekan dei Metronomy)
Su ben tre brani i controcanti in aria gospel sono opera della voce di super-lusso di Tweet (il che, per l'ambiente di riferimento, è un po' come avere Madonna in casa a farti la lavatrice). Nell'"Interlude: I Got So Much Magic, You Can Have It", Solange si diverte a cantare nella spazzola di fronte allo specchio assieme a Nila Andrews e l'ex-Destiny's Child Kelly Rowland, mentre l'altro "Interlude: This Moment" conta, tra gli altri, la presenza dello stesso Blood Orange e della violoncellista/modella Kelsey Lu. Verso il finale, l'amica e compagna di tour Kelela dona la sua maliconica voce di burro fuso allo scarno ed evanescente duetto "Scales". Ma c'è pure Tina Knowles, che nel suo "Interlude: Tina Taught Me" si rivolge alla figlia - e di conseguenza all'America intera - col fare pratico, diretto e accorato tipico di una madre. Ovunque si posi l'orecchio, insomma, c'è una piccola storia da ascoltare.
Da notare come "A Seat At The Table" - pubblicato a meno di due mesi dalla fine del secondo termine dell'amministrazione Obama, e col volgare spauracchio nichilista di Donald Trump a gravare sull'umore generale - abbia debuttato direttamente in vetta alla classifica americana. Si tratta di un risultato nel suo piccolo assolutamente non indifferente, vista la matrice del lavoro, e che va ulteriormente celebrato in quanto al suo interno si muovono le molteplici voci di tutte quelle minoranze che compongono - e arricchiscono - la popolazione statunitense.
Solange Knowles, insomma, a questo giro ha fatto proprio canestro; si può forse rimpiangere la mancanza di un pezzo squisitamente pop come quella "Losing You" contenuta nel precedente Ep "True" (che non a caso era stata cucinata sempre con l'aiuto di Blood Orange), ma è un sentimento che tende a svanire col progredire degli ascolti. "A Seat At The Table" è un vero e proprio album d'ascolto, fatto per restare nel tempo come testimone della sua era, e porta con sé già il profumo del mini-classico.
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