martedì 24 gennaio 2017

Say Yes – A Tribute to Elliott Smith: Recensione

Di Alessandro Franchi

 
La American Laundromat Records, etichetta di New York, pesca a piene mani nel proprio roster e confeziona un nuovo tribute album, questa volta dedicato alla problematica e controversa figura di Elliott Smith, cantautore scomparso nel 2003 a soli 34 anni. “Say Yes!” è una pietra dalle mille sfaccettature: ogni traccia proietta un singolare gioco di luci che rispecchia la multiforme personalità di Smith, cristallizzata in quell’ “Aut Aut” (o Either /Or) che ha spezzato in due la sua esistenza, sempre in bilico tra il fedele attaccamento ai valori morali e il piacere edonistico, tra l’amor proprio e l’altruismo, tra l’istinto di sopravvivenza e l’autodistruzione
 
I musicisti chiamati a interpretare i suoi pezzi fanno parte di un mondo non troppo lontano da quello di Elliott. Sono artisti indipendenti. C’è chi come lui ha abbandonato la band per dedicarsi all’attività da solista. Ci sono cantautori, vecchi amici della scena alternativa americana di fine anni ’80 e  giovani promesse che, quando nel 2003 Elliott è stato ritrovato morto, erano ancora dei bambini. Ognuno di loro ha accolto l’eredità di Smith e l’ha filtrata attraverso la propria percezione. E forse i brani che lasciano più soddisfatti e appagati sono quelli in cui ci si rende conto che questo processo è stato svolto fedelmente. E’ il caso di “Angeles”, reinterpretato da Katie Crutchfield, alias Waxahatchee. Quello che nell’originale era  un tappeto di accordi arpeggiati, diventa un ruvido riff di chitarra elettrica sul quale scivola la strascicata voce della Crutchfield. Il brano, che documenta le perplessità nutrite da Smith nei confronti della giungla di Los Angeles, dove doveva trasferirsi per un contratto con la DreamWorks, alimentano quella sensazione di repulsione nauseabonda che rimaneva sopita nell’originale
 

Allo stesso modo, “Condor Ave.” è  stata sapientemente gestita dalla coppia Jesu / Sun Kil Moon. Completamente rivista in chiave post-industrial, presenta una linea vocale piatta, atonale. Il testo, che Sun Kil Moon sembra leggere da un fogliettino stropicciato che gli è stato allungato all’ultimo secondo, si ricollega alla dimensione narrativa della versione di Smith, per l’unico brano in cui il cantautore si era preso la briga di raccontare una vera e propria storia. Con “Waltz #2”, invece, J Mascis prende troppo sul serio il compito interpretativo e non si limita a stravolgere il brano, ma ne crea addirittura uno completamente nuovo, che con l’originale ha in comune solamente qualche riferimento nel testo. Il risultato, dal punto di vista musicale, è buono. Le chitarre, vagamente ammiccanti al Neil Young di Dead Man e sporche della sabbia del West, danzano su un waltzer in 6/8. Il frontman dei Dinosaur Jr, però, pecca un po’ di presunzione. Forte del fatto di aver conosciuto Elliott in prima persona, sembra voler sfoggiare una certa supponenza.

Nella stessa trappola non cade Lou Barlow, altro amico di Smith e compagno di band di J Mascis nei Dinosaur Jr. Con “Division Day” , il guru del lo-fi si limita a replicare  il pezzo in chiave acustica, riarrangiandolo per l’ukulele. Privato delle luci della città, il brano rimane avvolto in una nuvola bucolica e acquisisce una nota intimistica: “Al mio amico scomparso. Con affetto, Lou”. Carica di emotività è anche la versione di “Pictures of Me” eseguita da Amanda Palmer. L’estrosa cantante del duo Dresden Dolls si accompagna al piano e trasferisce ogni sua singola emozione sulla punta delle dita, aggredendo i tasti con incredibile vigorosità. Difficile rimanere indifferenti. Oltre a queste eccezioni degne di nota, passando da “Between The Bars” di Tanya Donnelly fino ad “Easy Way Out” degli Wild Sun, ci si imbatte per lo più in trasposizioni canoniche. Niente di straordinario, seppur in certi casi si riesca comunque a percepire gli stilemi dell’artista che esegue. Un tributo fedele, con spunti originali. In definitiva, mi unisco al coro e dico: “ Say Yes!”. Acconsento.







 

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