martedì 15 luglio 2025

Umberto Palazzo e il Santo Niente

 La vita è facile


Formidabili quegli anni. Uno in particolare, il 1995, per il rock italiano fu un po’ lo scoperchiamento del vaso di Pandora, con conseguente sciamare di band e dischi destinati a segnare l’immaginario generazionale, a convincerci – a illuderci? – che il rock italiano anzi IN italiano avesse infine chiarito la rotta, impugnato la cloche e avviato le manovre per il decollo. Qualche titolo: Germi degli Afterhours, l’omonimo dei La Crus4 degli UzedaLungo i bordi dei Massimo Volume, senza contare che pochi mesi prima avevano visto la luce Catartica dei Marlene Kuntz e la doppietta Ko de mondo/In quiete dei CSI. Un fermento che trovava ulteriore conferma nella compilation Materiale Resistente, pubblicata dal Consorzio Suonatori Indipendenti in occasione del cinquantesimo anniversario della Liberazione, a cui parteciparono oltre ai citati Marlene e CSI anche altre band da poco esplose come ÜstmamòMau Mau e Santo Niente

Questi ultimi avevano esordito appena una settimana prima, il 18 aprile, sempre per CPI (etichetta che, ricordiamolo, era nata nel 1994 come fusione della bolognese I Dischi del Mulo e della fiorentina Sonica Factory) con La vita è facile, attribuito fin dalla copertina a Umberto Palazzo e il Santo Niente. A questo punto urge un po’ di racconto.

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Palazzo è un classe 1964 nativo di Vasto che – galeotta l’estate del 1981 passata a Bristol – si fece prendere tutto intero dal demone del post-punk. A quel punto la strada era già segnata: fonda gli estemporanei Aut Aut e quindi, trasferitosi a Bologna per motivi di studio, inevitabilmente si mescola alla fauna del rock felsineo, suonando prima con Ugly Things e poi con gli ottimi Allison Run di Amerigo Verardi. Il colpo grosso lo mette a segno nel 1990 fondando i succitati Massimo Volume, anche se per quanto lo riguarda il proiettile rimane in canna: nel 1993 infatti lascia la band per divergenze artistiche, poco prima cioè che la band a quel punto capitanata da Emidio Clementi esordisse con Stanze (nei cui crediti inevitabilmente compare anche Palazzo). 

Qui la vicenda giunge a una biforcazione: deluso e sfiduciato, Palazzo torna a Vasto, dove digerisce il malanimo passando spesso le giornate a  leggere in biblioteca. I treni giusti sembrano passati, altri treni sferragliano veloci. E lui rimane (è) a terra. Ma la strada, appunto, resta segnata, anche perché nel cassetto ci sono alcuni demo, peraltro buoni. Insomma, la neonata CPI dimostra interesse, grazie anche ai buoni uffici (e all’intuito notevole) di Gianni Maroccolo, ragion per cui Palazzo recluta Fabio Petrelli (basso) e Cristiano Marcelli (batteria) per dare vita a… Una band? O forse è meglio dire che lo stesso Palazzo, comprensibilmente scottato dalle pregresse esperienze, decide di mettere in gioco se stesso in forma di band

Un indizio viene dal nome: “santo niente” è un’imprecazione dialettale, un modo per bestemmiare senza bestemmiare, che Palazzo sente pronunciare da un tizio proprio nella biblioteca di Vasto, uno di quei giorni in cui si lecca le ferite leggendo. In quel momento, parole sue, vede il nome della sua nuova band “come simbolo di un processo di guarigione, un percorso fuori dal dolore”. Nel nome “Umberto Palazzo E il Santo Niente” quindi la congiunzione centrale sembra riferirsi a un momento, a quell’attimo/frattura in cui la biforcazione sembra rovesciarsi in possibilità, mantenendo tutta l’angolazione disillusa e aspra – la diffidenza – nei confronti di ciò che sarà. La dinamica tra dimensione rock – perciò la sua quadratura sonora in formato band – e quella del cantautore col suo punto di vista peculiare sulle cose, agirà come uno spettro al centro delle dodici canzoni di La vita è facile.

Si era nel pieno della stagione grunge, anche se come genere (nella sua eterogeneità costitutiva) andava considerato già cadavere, un po’ come il suo martire Kurt Cobain, divenuto di botto icona vivissima nell’immaginario degli appassionati rock e oltre, tanto da fornire alle band di Seattle (e ai molti epigoni) spinta e carburante ulteriori. Quello era il linguaggio a cui all’epoca il rock italiano si rifaceva nel suo voler essere rock, ed era anche un modo per mutuare attraverso Nirvana e compagnia certo DNA noise, hardcore e post-hardcore (l’influenza del britpop, alle prese con le frizioni effervescenti tra Blur e Oasis e quindi sul punto di fare il botto, non sarebbe mai stata altrettanto rilevante). 

Utilizzare l’italiano costituiva tuttavia una precisa scelta di campo, un collocarsi culturale, un’angolazione espressiva. Tanto più per Palazzo e il suo Santo Niente, il cui otturatore catturava fotogrammi di vita marginale, di un periferico profondo, dai connotati crudi e sordidi fino al grottesco, che fermentava dove il centro nevralgico delle cose appariva irraggiungibile, opaco e perfino ostile, la cui forza attrattiva dettava i contorni del desiderio e al tempo stesso della frustrazione, generando l’angoscia del non poter essere. La differenza, rispetto al punto di vista delle band basate sulle grandi città – Milano in primis – è sensibile.

Le canzoni di La vita è facile (titolo amaramente sarcastico) sono generazionali, certo, ma nella misura in cui rivelano l’inganno del generalismo generazionale, ovvero le diverse velocità di una generazione gettata in condizioni geografiche e culturali diversissime: se atterri sul lato sbagliato della faccenda (ad esempio in una piccola città costiera del centro Italia), ogni tentativo di affrancamento è devitalizzato sul nascere, le uniche opzioni sono i vicoli senza uscita dell’adeguamento, dell’offuscamento, dell’annichilimento. Per molti versi si tratta di un’angolazione paragonabile a quella con cui Seattle osservava la realtà USA (ovviamente la città dello stato di Washington era ed è un centro nevralgico per l’economia statunitense, ma da sempre conserva una dimensione decentrata, come se fosse fisiologicamente tagliata fuori dai flussi culturali principali). Infatti del grunge Palazzo – che si avvale di Maroccolo e Marco L.Lega alla produzione – prende la furia cieca che taglia lo sguardo, che toglie fiato al pensiero. A prevalere è l’asfissia emotiva dell’angoscia, che si presenta con freddezza apatica, come se provenisse da un entomologo alle prese con vicende umane dal destino segnato, coi margini di manovra dettati dal labirinto in cui aggirarsi battendo sempre gli stessi percorsi.

Intervistato, Palazzo si divertì a definire la sua musica “porno grunge”: una battuta, certo, che però sottolinea l’intenzione di volersi muovere sul filo di una narrazione de-romanticizzata, cruda, dissacrata. “Non mi frega niente di chi racconta la sua realtà interiore, l’intimismo è esattamente il contrario di quello che faccio”, dichiarò all’epoca. Si prenda Andarsene via, un’invettiva ventosa strutturata su minimi termini narrativi (“Hai sempre detto è una brutta situazione/Hai sempre detto qui c’è troppa confusione”) che si risolve nel cul de sac cobainiano del ritornello, dove l’unica liberazione è un collasso, la mortificazione dell’azione in un falò di intenzioni disperate. Altrettanto sintonizzata sull’afasia opacizzata Nirvana è la più chiaroscurale Tu non mi dai nulla, le strofe che si srotolano guardinghe e sinistre (“Tu/dici che non hai più slanci/e che non senti il sapore/dello schifo che mangi”) e per ritornello una botta sorda strumentale, un po’ come accade anche nella title track, col suo scivolare su un piano inclinato per metabolizzare un sinistro senso di abbandono, occasioni polverizzate e depressione nera (“I miei nervi non sopportano più niente/Vi chiedo scusa: avrei voluto essere divertente”). 

Anche quando il calore si alza fino al limite dell’incandescenza – temperatura livello Helmet – come nella tumultuosa Elvira, il punto di vista non rinuncia al distacco, l’io narrante canta con furia gelida una situazione di dissesto emotivo e psicologico con stile quasi cronachistico, scegliendo ancora una volta un “tu” che denuncia prossimità (“Elvira guarda/la grande oscurità/che ti fa urlare”) però senza empatia, lasciando cioè che la compassione agisca a livello intrinseco, come se fosse implicita nell’atto stesso del narrare. Il rock dei Santo Niente insomma non deve – non può permettersi di – concedere la gratificazione del dolore: deve incidere storie sul cemento di un presente grigio, poco ricettivo, indifferente. Deve dare per scontato che in ogni ascoltatore ci sia un potenziale carnefice, o comunque una quota considerevole di complicità con la carneficina di valori, avvenire, vite.

Il grunge è in questo senso un referente soprattutto poetico, nel senso che dalle band di Seattle proviene la disposizione all’insofferenza, al disgusto che fermenta fino al punto di ebollizione della furia, producendo uno scetticismo ventrale che sembra persino incapace di rovesciarsi in angoscia, per approdare quindi a uno spleen inerte, terminale. La peculiarità della scrittura di Palazzo sta esattamente nel modo in cui sembra voler ricavare senso dal fondo, dal diverticolo in cui si depositano scorie rancide, tragiche, grottesche. Pezzi come Il papponeL’aborigeno e Storia breve – costruiti su recitati che tradiscono lasciti evidenti dall’esperienza nei Massimo Volume – puntano l’occhio di bue su personaggi fortemente caratterizzati, individui prima che stereotipi, tessere di un mosaico attraversato da un’energia nera che li salda alla realtà di Vasto facendone emblema di tutte le situazioni periferiche, dove la trama delle regole si sfalda assieme alle meccaniche sociali standard. 

Tuttavia, mentre Alessia, la protagonista di Storia breve, è schiantata dal divario tra aspettative e realtà – uno schianto che sta tutto nel contrasto tra l’anaffettività sinistra delle strofe (carburate peraltro da uno stordente basso bristoliano) e l’esplosione bianca ai limiti del noise nel chorus -, il Pappone e il cosiddetto Aborigeno riescono a ritagliare senso al proprio esistere estraniandosi dal gioco, uscendo dalla sfera della morale, della liceità: la fisiognomica di entrambi, su cui il racconto insiste (con quel tono distaccato, intriso di flemma sdegnosa), ce li presenta come freak che il codice dell’ambiente metropolitano avrebbe probabilmente stritolato, mentre in quel gomito di terra affacciato sul mare riescono a tenere in piedi il loro spazio vitale, il loro regno. Anziché mettere in croce lo squallore della periferia, in queste canzoni sembra rimbombare un’accusa rivolta al centro del sistema, che pretende di governare e formattare (o schiacciare) una complessità ingovernabile, che calata in uno scenario periferico lascia emergere storie certo estreme, bacate, deragliate, però se non altro vive.

Cuore di puttana, presente in scaletta in due versioni – una “hardcore” più grungy e una “soft porno” bieca e minacciosa come una tanica di cherosene vicino a un falò -, fa collassare le linee narrative suddette affidandosi a una filastrocca ipnotica e a riff schiacciasassi per espettorare un rancore intriso di profonda amarezza. Il testo, va da sé, oggi verrebbe messo in croce per flagranza di politically incorrect (“Fra uomini stranieri, fra gente sradicata/cuore di puttana/Ricorda che ti ho amata”), anche se il suo realismo spietato tendente al noir – per così dire – assolve tutto, perché non fa altro che rivolgere un j’accuse aspro a uno scenario di deriva e desolazione urbana, sempre facendo perno su un punto di vista che si fa carico tanto dell’accusa quanto del peso da portare sull’anima. 

Se Finalmente sterile introduce nella ricetta una spolverata di psichedelia a insaporire l’impianto grunge e nel frattempo rievocare il riduzionismo politico/esistenziale dei CCCP (“Non produco e non consumo/Sono un immaturo e un insicuro”), e se Immondizia dal Giappone è una scossa a base di suoni trovati, cassa in quattro e riff granulosi più una misticanza di fiati e tastiere, Fata morfina chiude le danze (macabre) nel segno dell’abbandono dolciastro alle grazie opacizzanti del deliquio tossico, sei versi asciuttissimi (“Fata morfina/Ne ho voglia/E ho bisogno di te//Dammi leggerezza/Nel cuore/Leggerezza”) in una anti-ballad radente, tumultuosa e spettrale, tra rilasci di energia che si raggomitolano prima di farsi liberatori, tra parentesi meditabonde come bolle di sbigottita consapevolezza, a due passi dalle visioni ferine degli Shellac e dal languore plumbeo del post-rock.

Con un disco tanto potente e ispirato, e tenuto conto della temperie musicale suddetta, le cose dovevano per forza mettersi bene. O almeno avrebbe dovuto emergere una direzione promettente, una rotta da seguire. Lecito ipotizzare che a quel punto Palazzo si convinse di poter davvero mettersi al comando di una band, difatti il capitolo successivo ‘sei na ru mo’no wa na ‘i sarebbe uscito due anni più tardi a nome, appunto, Santo Niente (il titolo del resto ne è la traduzione in giapponese). Ma la direzione si rivelò un vicolo cieco: nel 1999, al termine di un tour per la promozione dell’EP Crossfader, l’impossibilità di far quadrare i conti (“non ce la facevo più economicamente a sopravvivere”) spinse Palazzo a interrompere l’esperienza. Niente più band. Via da Bologna, trasferimento a Pescara. Dove i Santo Niente risorgeranno nel 2003. In un nuovo millennio, con altre storie. In un’altra Storia.

Vedranno la luce altri due album, gli ottimi Il fiore dell’agave (2005) e Mare Tranquillitatis (2013), tra i quali prenderà vita il progetto parallelo in chiave cinematica, desert-rock e tex-mex El Santo Nada (un solo album, Tuco, del 2011) e l’esordio di Palazzo come solista con Canzoni della notte e della controra (2011). Quest’ultima dimensione sarà l’unica che nel lungo periodo sopravviverà (vedi i recenti L’Eden dei lunatici e Belvedere Orientale), a cui Palazzo affiancherà l’attività – tuttora prolifica – di DJ. 

In conclusione: non mi piace pensare ai Santo Niente come a un’occasione sprecata, anche se il lavoro con cui esordirono tre decenni fa lasciava presagire ben più di quattro (seppur buonissimi) album complessivi. Li vedo più come il paradigma di tutto ciò che non ha funzionato nel processo che avrebbe dovuto fare del rock (in) italiano un linguaggio davvero diffuso e significativo, con la sua capacità di intercettare le sfaccettature oscure e scomode del disagio (generazionale o meno), da rovesciare magari sul tavolo della radiofonia non necessariamente specializzata e “di nicchia”. Dalla nicchia, appunto, il rock italiano è uscito solo per diventare in breve il simulacro di se stesso, una versione potabile, vendibile, innocua. Non erano per nulla innocui, invece, i Santo Niente. Una qualità che infine – ahiloro, ahinoi – li ha soffocati. Del resto, per il rock italiano, la vita non è mai stata facile.





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