Giuliana Sgrena – Me la sono andata a cercare – Diari di una reporter di guerra.
Editori Laterza - 2025 - Pagg. 185 - 17,00 euro
Ci sono libri che arrivano come testamenti, altri come confessioni, altri ancora come richieste di ascolto. Me la sono andata a cercare di Giuliana Sgrena appartiene a tutte queste categorie insieme, ma ne supera i confini. È un libro che non si limita a raccontare una vita in prima linea: è il racconto, dall’interno, di un mondo che brucia, di un’umanità in bilico, e della responsabilità morale di chi decide di esserci. Anche quando non è previsto. Soprattutto quando non è permesso.
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Giuliana Sgrena è stata per trent’anni inviata speciale per il Manifesto, nei luoghi dove la parola “pace” era stata espulsa dal vocabolario. Dall’Algeria all’Iraq, dalla Somalia all’Afghanistan, passando per la Siria e l’Eritrea, ha documentato guerre spesso dimenticate, quasi sempre manipolate. Il suo non è mai stato un giornalismo da salotto né da retrovia: è stato, e continua a essere, un atto di presenza. Ostinata, scomoda, necessaria.
Il titolo del libro – Me la sono andata a cercare – non è una resa. È una provocazione. Un rovesciamento. È ciò che Sgrena si è sentita dire (spesso sottovoce, ma anche apertamente) da colleghi, opinionisti, ambienti militari e politici, all’indomani del suo rapimento a Baghdad nel 2005 e della tragica morte dell’agente Nicola Calipari, colpito da un proiettile americano mentre la stava riportando verso casa. “Cosa ci faceva lì?”, “Perché una donna?”, “Non si è forse cacciata nei guai da sola?”
La risposta, in queste pagine, è chiara e limpida: sì, se l’è andata a cercare. Ma ciò che ha cercato – e spesso trovato – è la verità. Una verità fatta di voci spezzate, di donne mutilate nell’anima, di bambini cresciuti troppo in fretta, di regimi che opprimono e di “liberatori” che devastano. Una verità scomoda, perché inchioda alle loro responsabilità i governi occidentali, i giornalisti embedded, gli esperti da studio televisivo che hanno raccontato le guerre con gli stessi strumenti con cui si vende un detersivo: lo slogan, l’immagine forte, il nemico facile.
Ma c’è di più. È anche un atto d’amore verso il mestiere del giornalismo inteso come servizio. È un omaggio a chi ha pagato con la vita la propria sete di verità – Ilaria Alpi, Maria Grazia Cutuli – ed è, al tempo stesso, un durissimo atto d’accusa contro la disumanizzazione del conflitto e la deresponsabilizzazione della politica. Nelle pagine più intime, il peso del dolore si intreccia con la rabbia lucida: quella del “sopravvissuto” che non trova pace, ma continua a dare voce a chi non ce l’ha più.
Se questo libro fosse uscito dieci o vent’anni fa, avrebbe avuto il tono della denuncia puntuale. Oggi, invece, suona come un presagio avverato. Il mondo raccontato da Giuliana Sgrena – quello in cui la guerra non è più un’eccezione ma una normalità strategica – è lo stesso che oggi si dispiega davanti ai nostri occhi, amplificato, iperconnesso, ancora più crudo e caotico.
L’invasione russa dell’Ucraina ha riportato il conflitto nel cuore dell’Europa, ma con dinamiche che ci ricordano Kabul più che Berlino. Gaza è oggi lo scenario di una catastrofe umanitaria che si consuma nel disinteresse crescente dell’opinione pubblica internazionale, anestetizzata da anni di notizie usa-e-getta. L’Iran reprime brutalmente ogni forma di dissenso, e le donne – ancora una volta – sono il bersaglio privilegiato di un potere patriarcale che si traveste da religione.
In questi scenari, ritornano le stesse ambiguità che Sgrena aveva già denunciato: l’uso strumentale dei diritti umani, l’informazione manipolata, il sostegno occidentale a regimi amici purché “strategici”, la militarizzazione delle crisi come prima – e spesso unica – risposta. Le classi politiche si mostrano drammaticamente inadeguate, ostaggio di una logica securitaria e delle pressioni di interessi economici che dettano le linee d’azione molto più della diplomazia o del diritto internazionale.
E allora il libro si legge anche come una guida etica in tempi di disorientamento. Non offre soluzioni, ma offre strumenti: l’empatia, l’ascolto, la necessità di non voltarsi dall’altra parte. E ci ricorda che raccontare – oggi come ieri – è già una forma di resistenza.
C’è una costante, nel racconto di Sgrena, che attraversa le frontiere geografiche e culturali: la voce delle donne. Non come “vittime” da compatire, ma come soggetti attivi, testarde costruttrici di pace, portatrici di verità in contesti dove la verità è bandita. In un mondo in cui il giornalismo di guerra è ancora ampiamente dominato dagli uomini, Sgrena ha scelto un punto di vista diverso, radicalmente incarnato, che interroga il potere non solo per quello che fa, ma per quello che finge di non sapere.
Raccontare da donna, in contesti di guerra, non è solo una sfida professionale. È un atto politico. Significa portare un altro sguardo, un’altra sensibilità, un altro tipo di attenzione. Significa rifiutare il linguaggio militare come unica chiave di lettura della realtà. E anche per questo, Sgrena è stata spesso emarginata, sottovalutata, persino attaccata. Ma il suo lavoro resta. E oggi, forse più che mai, acquista un valore profetico.
Questo non è un libro facile, né consolatorio. Ma è un libro necessario. Perché ci ricorda che esiste un giornalismo che non si arrende alla semplificazione, che non confonde equidistanza con indifferenza, che non si mette al servizio del potere. Esiste ancora – e ha il volto di Giuliana Sgrena – un giornalismo che mette al centro le persone, non le mappe; le storie, non le statistiche.
In un’epoca in cui la verità è diventata negoziabile, in cui l’informazione è ingabbiata nei format e nelle strategie narrative, leggere questo libro è come tornare all’essenza: guardare, ascoltare, capire, raccontare. Non per cinismo, ma per amore. Amore per l’umanità ferita, che ancora chiede di essere vista.
In definitiva, Me la sono andata a cercare è molto più di una memoria autobiografica. È un manifesto di integrità, un richiamo al coraggio, un invito a non arrendersi. Perché la verità, anche oggi, bisogna ancora andarsela a cercare. E per farlo, serve qualcuno disposto a sporcarsi le mani. E magari, come Giuliana Sgrena, anche a rischiare la vita.
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