mercoledì 31 maggio 2017

Chris Cornell

Chris Cornell

Euphoria Mo(u)rning
Raccontare Chris Cornell, attraverso un album, nel giorno in cui morì.
 
 
 
Quando hai una bottiglia per brindare e quello per cui stai per brindare è l’arrivo di un nuovo secolo, il tempo si ferma. Chris indossa un vestito luccicante, è pettinato ad arte, stringe una magnum con la mano destra e con le dita della sinistra trattiene il tappo che spinge per esplodere. Mancano pochi secondi al 2000. Una specie di spauracchio dicono i giornali. C’è quella cosa del millennium bug, c’è quella sensazione che da domani cambierà tutto. Chris aspetta. Ha gli occhi lucidi. E il tempo si ferma per davvero. Così ha qualche momento per
pensare: “sta per finire un decennio pazzesco” – rimugina. Un ottovolante, una giostra infuocata. Quanta musica, quanti viaggi. Quanti amici morti, quanti deliri. Quanti dollari buttati, altri goduti fino in fondo. Quante chitarre a raccontare i migliori anni della vita di un artista. Chris, incrocia lo sguardo degli altri. Al ralenti. L’odore di cibo inonda la stanza, così come quello dei fuochi d’artificio che si scaldano. Ci siamo, dopo quel volo di sughero non si potrà più tornare indietro.
Ma per Chris Cornell il bug del millennio si era già palesato. Succede tutto in una volta come sempre in questi casi. La sua band, i Soundgarden, si era sciolta dopo una serie di scazzi colossali nell’aprile del 1997 ma era il tessuto connettivo ormai a fare acqua da tutte le parti. Quella bolla di sapone chiamata grunge era scoppiata lasciando i resti sui muri. Kurt Cobain era morto, Andy Wood pure. Di Layne Staley poche notizie. E poi quel ragazzo dalla faccia pulita che non c’entrava nulla con lo sfacelo, ma che fu inghiottito dal fiume quasi fosse una punizione divina: Jeff Buckley. Però non è solo questo. Perché a fare traballare la terra sotto i piedi di Cornell ci sono pure il divorzio con la moglie e quel vizio per l’alcol, collante diabolico della sua vita. Ma Chris è sempre stato un esempio per tutti i suoi colleghi, una specie di padre putativo del movimento. Chris è Chris. Lui non fa stronzate. Lui non finisce male. Fortuna che c’è Chris!





E Cornell si dimostra forte abbastanza per affrontare il burrone. In tasca ha una sola parola: “euphoria”, la sensazione che si ha quando ci si infila in qualcosa di sconosciuto. Accanto a quella eccone un’altra “mo(u)rning”. Con o senza ‘u’? – è il grande dubbio di Chris. Perché con significa ‘lutto’, senza invece ‘mattina’. Alla fine opta per la seconda ed Euphoria Morning, uscito nel settembre del 1999 è il debutto solista di Cornell all’insegna della poesia. Perché sia che si tratti dell’euforia della mattina, che del lutto (ma nella ristampa del 2015 tornerà la ‘u’), il senso è quello artistico della ripartenza. E Chris Cornell riparte con un disco straordinario. Un album che si prende la responsabilità, lui, di chiudere il decennio.
Dodici canzoni che mollano il grunge, e che fanno un viaggio nel rock più trasversale e acustico. Un disco che non c’entra nulla con il Cornell sentito fino a quel momento, ma che è lui al 100 percento. Lo è quando in Can’t Change Me, canta soffice: “sta per cambiare il mondo, ma non può cambiare me” o quando, sempre a proposito del secolo in arrivo, gli si stringe il cuore: “Sono alla ricerca di un amico per la fine del mondo” (Preaching The End Of The World). Nella voce di Cornell evapora la cattiveria dei Soundgarden, ora piuttosto il suo cantato è asciutto, per nulla irruente. Le sue canzoni sono suggestioni romantiche, poesie americane, poco sofisticate ma molto sentite. E la musica si scrolla di dosso l’onere degli steccati: c’è il raffinato soul di When I’m Down, lo space-rock di Moonchild, il folk crudo di Sweet Euphoria, la ballata esistenziale Disappearing One. Ci sono gli incubi personali, la solitudine, c’è la storia sfortunata di Jeff Buckley raccontata nella funky ma melanconica Wave Goodbye. C’è l’atterraggio di sicurezza verso un nuovo mondo che – POP! (schizza il tappo dello champagne) – è appena cominciato.



 

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