giovedì 20 aprile 2017

Luigi Tenco - Ieri, oggi e forse domani

In che modo, a 50 anni dalla morte, l’eco delle sue canzoni si riverbera ancora nell’attualità?
 
 
 
Il dramma consumatosi a Sanremo nelle primissime ore di venerdì 27 gennaio 1967, dentro la camera 219 nella dépendance dell’hotel Savoy, scombussolò il rituale mondano che si svolgeva al teatro Ariston, segnando in profondità il costume dell’epoca. Luigi Tenco aveva deciso di partecipare alla 17esima edizione del festival della canzone italiana sull’onda dell’impetuosa relazione sbocciata con Dalida: avrebbero cantato Ciao, amore ciao. Frattanto, durante il 1966, la sua carriera aveva preso quota: prima la sigla di chiusura della serie televisiva “Il commissario Maigret”, Un giorno dopo l’altro, e quindi l’apparizione a “Un disco per l’estate” con Lontano, lontano. Le gare non facevano per lui, tuttavia: subito estromesso dalla competizione estiva, conobbe la stessa sorte nella fase eliminatoria della kermesse sanremese. Era salito sul palco esitante, avendo sedato il panico con alcol e barbiturici. La notizia dell’esclusione gli fu comunicata dopo che si era appisolato su un tavolo da biliardo. Rientrò in albergo solo e deluso. Nel biglietto d’addio scrisse: “Io ho voluto bene al pubblico italiano e gli ho dedicato inutilmente cinque anni della mia vita. Faccio questo non perché sono stanco della vita (tutt’altro) ma come atto di protesta contro un pubblico che manda Io tu e le rose in finale e ad una commissione che seleziona La rivoluzione. Spero che serva a chiarire le idee a qualcuno. Ciao. Luigi”. Meno di due mesi più tardi avrebbe compiuto 29 anni.
Fu Dalida a trovarlo cadavere. Era morto per un colpo d’arma da fuoco alla tempia destra: nella stanza venne rinvenuta una Walther Ppk calibro 7.65 di sua proprietà. E però alcune incongruenze sulla scena del crimine e un certo pressapochismo nelle indagini hanno alimentato nel tempo una dietrologia infarcita di misteri e interpretazioni capziose, culminata nel 1990 in una puntata del programma televisivo di Corrado Augias “Telefono giallo”. Nel dicembre 2005, su sollecitazione del fratello Valentino, la Procura Generale di Sanremo dispose infine la riesumazione della salma: l’autopsia conseguente, effettuata il 15 febbraio 2006, confermò il verdetto di suicidio, a quel punto accettato dai familiari. Ciò nonostante, due anni fa, è tornato sull’argomento “Il Fatto Quotidiano”, rilanciando in un articolo le tesi esposte da Pasquale Ragone e Nicola Guarneri nel volume Le ombre del silenzio, edito nel 2013 da Castelvecchi. Che si condivida oppure no la ricostruzione ufficiale dell’accaduto, restano l’entità umana della tragedia e il senso della perdita sul piano artistico.
Luigi Tenco era un personaggio straordinario: “Il primo cantautore italiano”, nella definizione di Fabrizio De André, che compose in sua memoria Preghiera in gennaio. Diceva di sé, in modo autoironico: “Sono fuori di me e sto in pensiero perché non mi vedo rientrare”. E notoriamente aveva un temperamento riottoso: “Io compromessi non ne ho fatti mai, con nessuno, perché non ne so fare, non riesco a venire a patti con la coscienza, cioè con certe mie convinzioni. Io sono come sono”, affermò nel corso di un acceso dibattito pubblico al Beat 72 di Roma, nel novembre 1966. Aveva personalità, ma era anche fragile. Come tutti, la risultante del proprio percorso biografico: un’infanzia da feuilleton, gli sbandamenti scolastici nell’adolescenza, i fervori artistici ai tempi della bohème genovese con Lauzi, Paoli e De André, il trasferimento a Milano, la passione politica che lo portò a iscriversi al Partito Socialista, gli esordi discografici sotto pseudonimo, l’avventura cinematografica nei panni di un ribelle esistenzialista nel film di Luciano Salce La cuccagna, l’aria da bel tenebroso che lo rendeva tombeur de femmes, il primo long playing (dove figuravano Mi sono innamorato di te, Angela e la censurata Cara maestra) e poi il secondo (contenente Ragazzo mio e Vedrai, vedrai). Fino al capolinea sanremese.
Cinque anni dopo la sua scomparsa Amilcare Rambaldi costituì il Club Tenco, che dal 1974 assegna le targhe omonime. Ne sono stati insigniti in momenti diversi e con motivazioni differenti Mauro Ermanno Giovanardi (due volte insieme ai La Crus, 1995 e 2001, e altrettante da solista, 2013 e 2015), Cristina Donà (1997 e 2015), Colapesce (2012) e Simone Lenzi (con i Virginiana Miller, 2014). Ci siamo rivolti a loro per tentare di misurare quanto l’eco delle sue canzoni ancora si riverberi ai giorni nostri. Quando Tenco morì, solo Giovanardi era già nato, ma aveva appena quattro anni.
Qual è il primo ricordo che hai di Luigi Tenco? In che modo e quando è entrato nella tua vita?(Cristina Donà) È un ricordo in bianco e nero, in uno schermo piccolo. L’immagine del viso e un commento di mio padre con riferimento al suo suicidio. Tenco è morto lo stesso anno in cui sono nata e di lui ho raccolto testimonianze distratte e spesso casuali, quasi sempre di cronaca, che riguardavano la sua vita. La vicenda del suicidio, negli anni in cui non avevo ancora incontrato la sua arte, ha prevaricato sicuramente musica e parole. Nella casa dove sono nata e ho vissuto sino agli 11 anni giurerei di aver incrociato più volte il 45 giri Se stasera sono qui, senza però aver mai avuto il desiderio di metterlo sul piatto. È tornato poi a fare capolino in adolescenza, ma la voglia di ascoltarlo è arrivata in modo più marcato quando ho cominciato a scrivere canzoni e a salire sul palco. M’incuriosirono alcune cover di colleghi che frequentavo e stimavo: Angela dei La Crus, Ciao amore ciao che gli Ottavo Padiglione facevano ogni tanto dal vivo e una versione molto bella di Io sì di Ginevra Di Marco. Da lì rispolverai altri brani attraverso una compilation. Mi attira e mi piace quella parte malinconica che alle mie orecchie non suona mai fine a se stessa, e la sua vocazione melodica non scontata, come pure lo scrivere testi fregandosene, in molti casi, della rima.
(Mauro Ermanno Giovanardi) Quando morì avevo quattro anni e non mi ricordo logicamente della sua fine. Mia madre, che mi partorì a 19 anni, aveva una collezione infinita di 45 giri e il primo contatto fu la colonna sonora de “Il commissario Maigret”. Poi vagamente venni a conoscenza della sua vicenda da più grandicello. Il primo vero momento d’interesse fu a metà degli anni Ottanta, quando Steven Brown fece un minialbum di sue canzoni. Mi chiesi come mai un membro di una band americana importante, intrigante e stimata come i Tuxedomoon riprendesse fra tutti gli autori italiani proprio lui. Poi la svolta fu a cavallo dei Novanta, quando la madre della mia fidanzata di allora mi disse un giorno che avrei dovuto ascoltare Luigi Tenco, perché aveva un modo di cantare triste come il mio. Racconto sempre questo aneddoto, ma è la verità. E mi fece sentire Angela. Per me fu un vero colpo di fulmine. Noi di quella generazione lì, che a 18/19 anni arrivavi a Londra nel pieno della rivoluzione punk e ne rimanevi affascinato, avevamo modelli di riferimento sicuramente non italiani. Per me Cave e Cohen su tutti, in quel periodo. E sentire un autore italiano che scriveva e cantava storie d’amore in maniera vera, intensa e credibile come loro, distante anni luce dalla canzonetta sanremese che in quegli anni era pure in playback, fu – come dicevo – un vero e proprio colpo di fulmine. “Cazzo, ma allora si può fare!”, ricordo di aver pensato. Di cantare in italiano…
(Simone Lenzi) Non ricordo esattamente quando, ma dovevo essere molto piccolo. Quello che invece ricordo è che lui, da subito, fu per me “quello che si è ammazzato”. In realtà, Tenco fu la mia presa di coscienza che non si moriva solo di vecchiaia o di morte violenta per mano altrui: si poteva morire anche perché ci si toglieva la vita da soli. “Quello che si è ammazzato” divenne quindi uno che aveva fatto una cosa veramente molto strana e difficile da comprendere.
(Colapesce) Sono arrivato a Tenco abbastanza tardi, con la maggiore età. Fino ai 18 anni io e la mia “banda” eravamo dei nazisti in fatto di ascolti: esistevano solo chitarre distorte e tempi sincopati. Poi, una sera, alla fine di una lunga festa, dopo Perfect Day di Lou Reed, il Dj ha fatto partire Mi sono innamorato di te e mi ha letteralmente steso, da subito. L’indomani andai a comprare una raccolta con tutti i classici di Tenco. Quindi nel lettore Cd portatile alternavo lui agli Slint. Un volo pindarico, ma godevo del potere tridimensionale di quei brani, entravo nelle canzoni e mi perdevo fra le sue parole.
Dovessi indicare una canzone in particolare fra le sue, per simboleggiarlo, quale sceglieresti e perché?(S.L.) A costo di essere banale, ma proprio per quanto dicevo prima, Vedrai, vedrai rappresenta meglio di tutte il paradigma Tenco, perché getta un luce di verità sulla stessa speranza che canta: “Vedrai che cambierà, forse non sarà domani, ma un bel giorno cambierà”. “Vedrai, vedrai”: “Abbiamo visto”, verrebbe da rispondere con amarezza. In realtà, Vedrai, vedrai dice moltissimo su cosa sia una canzone, e forse è la quintessenza stessa di ogni canzone possibile: un grumo di desiderio e di speranza, anche quando non si sa più cosa desiderare e non riusciamo a sperare più niente. La speranza di Vedrai, vedrai vive nello spazio di una canzone. Il fatto che quel “bel giorno” in cui tutto sarebbe cambiato alla fine non sarebbe mai arrivato non riguarda la canzone ma soltanto la vita.
(C.) Sicuramente Lontano, lontano, un suo grande classico. Potrebbe suonare come scelta scontata, ma la lego a un episodio particolare della mia vita: il primo vero amore. Avevo 21 anni ed ero innamorato perso di una ragazza, e anche lei lo era di me, ma a un certo punto mi lasciò. Adesso cerco di reagire alle situazioni tristi con un atteggiamento propositivo, mentre all’epoca mi piaceva andare a fondo nelle delusioni e quindi ascoltavo solo cose che potessero sottolineare bene quella tristezza. E con Lontano, lontano per la prima volta piansi davanti a una canzone: parole che evocavano ricordi vividi e sembravano scritte apposta. È un brano perfetto. Non ha avuto bisogno neanche del ritornello, quella metrica ti scivola dentro e con dei semplici salti di tono (esattamente quattro) a ogni strofa ti trovi sempre più a fondo e in meno di tre minuti dice tutto quello che la tua immaginazione non era riuscita a semplificare, a codificare.
(C.D.) Mi sono innamorato di te, perché è una di quelle canzoni rare che parlano d’amore in maniera inusuale, che descrivono la figura di un maschio insicuro, fragile in quell’apparente sicurezza che credo all’epoca fu anche fraintesa. È una grandissima dichiarazione d’amore, forse una delle più grandi in musica. In maniera trasversale mi ricorda I’m Not In Love dei 10cc. Qualche tempo fa ho scoperto che l’idea del brano di Tenco nasce da una melodia del suo strumento, il sax.
(M.E.G.) Vedrai, vedrai. Se devo dire qual è la canzone più importante nella storia della musica italiana, dico questa. Riesce a raccontare in una maniera così credibile quel dialogo che neanche ti stai accorgendo che lo stia cantando. Che ci siano sotto un’armonia e una melodia così potenti. Naturalezza pura. Un miracolo di scrittura. E d’interpretazione. Se in più pensi che questo dialogo tra uomo e donna non è fra due amanti, ma lui che si rivolge alla madre, è la mazzata finale.
Qual è secondo te l’aspetto più rilevante del suo carattere espressivo, o quello che si può dire sia invecchiato meglio: le parole o la scrittura musicale? Che cosa lo rende eventualmente ancora attuale?(C.) Tenco è invecchiato bene, sia dal punto di vista armonico sia testuale. Forse il primo aspetto risente più del tempo per via dei suoni, mentre i testi a mio avviso sono, sì, dei classici ma ancora modernissimi. Le parole d’amore, se scritte bene, non invecchiano mai, credo. Ancora ci possiamo emozionare con Dante così come con Tenco. A renderlo tuttora attuale sono tanti elementi anche extramusicali, probabilmente. Tolto l’indiscusso talento di fine paroliere e soprattutto canoro, penso che il suo personaggio scuro e misterioso, unito alla morte precoce, abbia creato poi definitivamente il mito. I misteri e le morti premature conferiscono spesso all’artista un’aura di bellezza, conservandolo quindi sempre attuale. Da Hendrix alla Winehouse, certe circostanze tristi lasciano alcuni musicisti più in vita dei vivi, artisticamente parlando.
(C.D.) Per quel che mi riguarda, entrambe le cose: il linguaggio, sia letterario sia musicale, suonava moderno, anche troppo, all’epoca. Oggi suona semplicemente fuori dal tempo. Non so se è l’effetto di una morte prematura che lo rende immortale, ma a me non sembra datato. Anche se c’è una parte del suo repertorio che forse rimane molto legata a quel periodo storico per le modalità di scrittura, credo che nella maggior parte dei casi siano i suoni a essere sorpassati, i suoni utilizzati nelle registrazioni ma non le linee melodiche, le armonie o i testi. Se poi penso che i nostri giorni vedono un numero sempre crescente di uomini alle prese con la depressione, il suo modo di autodescriversi e confessarsi sia con le parole sia con il mood musicale mi pare quanto mai attuale.
(M.E.G.) Per me sicuramente la parte letteraria. È stato per davvero rivoluzionario e innovatore. Un proto punk ante litteram. Per l’uso dei termini e le situazioni descritte, cercando di portare nella canzone popolare tematiche più esistenziali. Per essere stato fra i primi a prendere a picconate la triade Sole/Cuore/Amore. E se sei così avanti, è logico che 50 anni dopo rischi di essere ancora attuale.
(S.L.) Io credo che Tenco fosse un songwriter perfetto, motivo per cui non ha molto senso dividere quello che lui ha unito in una simbiosi così efficace. Sono sempre stato convinto che la canzone debba aspirare a questa simbiosi di parole e musica in cui il tutto è più della somma delle parti, e penso che Tenco abbia seguito questa aspirazione. Le melodie sono bellissime e non riesco a immaginare parole migliori che le incarnino. La sua attualità per me è quella di tutti i songwriters che hanno compreso l’aspirazione profonda di questa simbiosi. In altre parole, se per assurdo dovessi spiegare che cos’è una canzone a uno che non ne ha idea, gli farei ascoltare Tenco.
 
 
 

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