martedì 7 febbraio 2017

Il quotidiano La Stampa pubblica un reportage da Vasto. Dopo averlo letto ho inviato alla redazione questa lettera.

Reportage
 
“Italo ha fatto la fine che meritava”. Nel (P)paese che non smette di odiare
 
 
I genitori del giovane ucciso a Vasto: “Non denunciamo nessuno”. Ma in rete la gogna continua
 
L’ultimo saluto degli amici di Italo D’Elisa al funerale: palloncini bianchi per ricordarlo


Da http://www.lastampa.it/

 
Di : Niccolò Zancan
inviato a vasto (Chieti)
 
Pubblicato il 07/02/2017
Ultima modifica il 07/02/2017 alle ore 15:07
 
«Un insignificante verme in meno!». «Ha fatto la fine che meritava». «Onore al gladiatore». Come si esce vivi dal Paese dell’odio? Forse scomparendo dietro una porta chiusa, al riparo di un po’ di silenzio. Quello che la madre di Italo D’Elisa, linciato sui social network e poi ucciso per vendetta, ora cerca di opporre all’assedio delle televisioni. Al sesto giorno di supplizio, la signora Diana scrive un biglietto e lo affida al cognato Andrea, perché lo legga davanti ai prossimi microfoni puntati: «Desideriamo rimanere nel silenzio del nostro dolore, nella semplicità e nella riservatezza che ha sempre caratterizzato la nostra vita».   
 
Era mattina quando i titoli dei giornali locali gridavano dalle prime pagine: «I D’Elisa denunciano gli sciacalli del web!». È pomeriggio quando l’avvocato della famiglia D’Elisa, Pompeo Del Re, dice: «Mi è stato chiesto di frenare. Non denunciamo nessuno. Non ci sono querele da parte della famiglia, ma soltanto grande fiducia nella giustizia». Diluvia. Fa caldo. «Delitto e castigo», lo chiamano alcuni per riassumere il caso. Altri preferiscono: «Il delitto d’amore». Certe televisioni del pomeriggio, rilanciate in tutti i bar di piazza Rossetti, mettono sullo stesso piano un omicidio stradale colposo con un omicidio premeditato a mano armata. Mentre il web continua a vomitare sentenze e insufflare stille d’odio.  
 
Il 1° luglio del 2016, Italo D’Elisa, 21 anni, operaio alle presse della Denso con contratto interinale, esce a fine turno e si mette alla guida di una vecchia Fiat Punto. All’incrocio fra via Giulio Cesare e corso Mazzini, la strada principale di Vasto, passa con il semaforo rosso. Sta viaggiando ai 62 chilometri all’ora. Il limite è 50. In quel momento sta arrivando Roberta Smargiassi a bordo di uno scooter Yamaha Sh650: ha 34 anni, è incinta. Lei e il marito Fabio Di Lello avrebbero dato la notizia alle famiglie il giorno successivo. Ma Roberta Smargiassi muore quella notte d’estate. Una telecamera del circuito di sorveglianza riprende nitidamente la scena. Dopo tre giorni quel video è ovunque: Facebook, WhatsApp, anche su Youtube. Tutti vedono la ragazza sbalzata dal sellino. E mentre il marito Fabio Di Lello si ammala e inizia a covare la sua vendetta, è importante concentrarsi su ciò che accade intorno.  
 
Alla fiaccolata per Roberta partecipano 300 persone. Tutte chiedono giustizia. Ma cosa significa, esattamente? «Ricordo che sono iniziati ad arrivare i primi messaggi», racconta Michele D’Annunzio cronista del giornale «Zona Locale», uno dei più seguiti a Vasto. «Sotto quell’articolo della fiaccolata sono comparse le prime frasi. Tutti volevano che D’Elisa andasse in galera. Scrivevano: il pirata deve andare in gabbia!». Ma Italo D’Elisa era sobrio, al momento dell’incidente. Non aveva assunto droghe. E non era scappato, anzi. Aveva cercato di prestare i primi soccorsi a Roberta, ed era stato lui stesso a chiamare le forze dell’ordine. «Non c’erano assolutamente, a norma di legge, gli estremi per l’arresto», ribadisce ancora una volta il procuratore capo Giampiero Di Florio.  
 
Davanti al panificio della famiglia Di Lello, forse il più importante del paese, compare lo striscione: «Giustizia per Roberta». Iniziano a proliferare gli insulti sul web, le falsità su D’Elisa. Dicono che sia figlio di un avvocato, ecco perché avrebbe scampato l’arresto. Qualcuno manda in frantumi un vetro dell’auto di suo zio. Tutti ancora si scambiano il video dello schianto come prova della sacralità di quella rabbia. Mentre Italo D’Elisa, figlio di due operai, con la madre licenziata per dismissione della fabbrica, è in cura all’ospedale perché non riesce più a dormire. «Quando è tornato a casa, stava tutto il giorno chiuso nella sua stanza con quel caldaccio», racconta lo zio Andrea. «Mai un bagno, mai una sera fuori. Continuava a rivivere nella sua testa la scena dell’incidente. Stava ancora male. Avvertiva l’odio che c’era nei suoi confronti».  
 
La famiglia D’Elisa aveva scritto una lettera di vicinanza alla famiglia Di Lello. Avevano tentato di incontrarli, attraverso amicizie comuni, per trovare una strada di pacificazione. Anche Fabio Di Lello era in cura, nel frattempo, seguito da tre diversi specialisti. Ogni giorno e ogni notte passava ore a parlare da solo davanti alla tomba di Roberta. A settembre aveva comprato la pistola, si allenava al poligono. Gli amici di Facebook lo aggiornavano sui movimenti o presunti tali «dell’assassino». 
Non si erano mai visti. Mai conosciuti. «Non è vero che Italo lo abbia provocato. Non lo avrebbe mai fatto. Italo era un bravissimo ragazzo. Andava in giro in bicicletta, salvava le tartarughe, aveva la passione di lavorare nella protezione civile. Avrebbe voluto andare a scavare per la slavina del Rigopiano». Aveva perso sia il lavoro sia la sua passione, dopo l’incidente. Sospeso fino al processo che stava per essere celebrato. Due persone malate. Una piccola città di 41 mila abitanti. E gli odiatori sul web che continuavano a lavorare ai fianchi entrambi. «Faremo degli accertamenti sull’odio - dice il procuratore Di Florio - ma la responsabilità penale è personale. Dovremo verificare se ci sono stati singoli comportamenti rilevanti, non si può indagare un clima». Mercoledì pomeriggio Italo D’Elisa era andato a fare un giro in bicicletta per le campagne. Aveva messo una sua foto nuova su Facebook, dove compariva senza il suo vero nome. Alle quattro e dieci del 1° febbraio 2017, si è fermato a bere qualcosa nel bar sotto casa. Forse Fabio Di Lello gli ha chiesto se fosse proprio lui. Perché non l’aveva mai visto in faccia, prima di premere il grilletto. 
 
 
Lettera
 
Buongiorno,
 
ho appena letto il vostro reportage da Vasto, ed essendo originario di quella cittadina sento di dover fare alcuni appunti:
 
1) il paese che non smette di odiare è un titolo ad effetto ma fuoriuvante dal momento che gli odiatori sono quelli che dopo l'omicidio hanno aperto due pagine fb, ora chiuse, raccogliendo pochi followers e tantissimi commenti sdegnati;
 
2) la fiaccolata  fu organizzata pochi giorni dopo l'incidente stradale e non era animata da forcaioli perché dai filmati si vede che la gran parte delle persone era lì per pregare. L'ambiguità e la pericolosità erano nello striscione Giustizia per Roberta, ad intendere che la giustizia andava chiesta in strada perché altrimenti non sarebbe arrivata, mentre come si è visto la Procura ha avuto tempi celeri nel chiudere le indagini;
 
3) ci sono state prese di posizione pubbliche significative che vanno citate: sul sito di Zonalocale c'è una dichiarazione dello zio di Italo d'Elisa ispirata a principi di umanità e civiltà preceduta da quelle del vescovo di Trivento e da Alessandro Obino (che non conosco)  dello stesso tenore.
 
Tutto questo per dire che scambiare i post di siti web con l'umore di una intera comunità rischia di apparire superficiale: post terrificanti si leggono su qualsiasi tema e provengono da ogni luogo, qualcuno ci costruisce persino una fortuna politica, e il macabro da sempre suscita  le peggiori pulsioni. Si pensi ad esempio al turismo dei curiosi che si generò dopo la strage di Novi Ligure. Si può dire che tutti gli abitanti della zona fossero così? Ovviamente no.
 
La vicenda di Vasto a me pare sia da considerare come il segnale di un clima sempre più diffuso: una sfiducia generalizzata nelle istituzioni, l'esaltazione del proprio piccolo mondo, favorita dalla facilità di accesso e  dalla potenza dei social, la mancanza di confronti reali con persone che hanno stili di vita diversi o che semplicemente hanno affrontato positivamente disgrazie simili.
 
Vogliamo chiamarla solitudine del cittadino globale? Anche se si vive in una piccola comunità la si può avvertire, ma essere scambiati per una città di odiatori è esattamente quello che vogliono i w-ebeti.
 
Cordiali saluti,
gc
 
...di seguito la risposta de La Stampa.
 
Ho verificato con l’autore e abbiamo corretto (almeno nella versione online e sui social), l’errore di fondo è stato togliere la maiuscola a Paese: le considerazioni nell’articolo erano rivolte a tutta l’Italia, non a Vasto. Mi scuso a nome del giornale per l’equivoco.
Grazie per la lettera, cordiali saluti
Anna Masera
 
 
 
 
 

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