Due libri tra immagini e illusioni sul grande artista inventore del Teatro-Canzone
Nando Mainardi: "La magnifica illusione. Giorgio Gaber e gli anni ‘70” (Vololibero Edizioni, Uscita: 22 Marzo 2016 – Pagg. 208, 16.50 euro)
Reinhold Kohl: “Giorgio Gaber... io mi chiamo G e sono ancora qui...” (Aereostella Uscita: 12 Febbraio 2015, Pagg.112, 18 euro)
Capita frequentemente che i numerosi concerti tributo dedicati a Giorgio Gaber che girano l’Italia, anche proposti da esecutori bravi e famosi (Iacchetti, Alloisio), riconducano spesso alla versione più spensieratamente ridanciana (peraltro stradignitosissima) dell’artista milanese tra varie barbere e champagne, ballate del Cerutti e torpedo blu, o a quella più intimistica e privata de “Il Signor G e l’amore” proposta dall’ottima Rossana Casale. Difficile, però, che in quegli spettacoli venga fuori il Gaber psicoanalitico de L’elastico, quello politico di “Dialogo tra un impegnato e un non so” o quello incazzato nero di “Polli d’allevamento” o di Io se fossi Dio. Quello che non succede in quei concerti, succede però nel bel libro di Nando Mainardi "La magnifica illusione. Giorgio Gaber e gli anni ‘70” (Vololibero Edizioni) recentissima pubblicazione che analizza il periodo forse più fecondo, sicuramente il più importante (secondo Mainardi e anche per il vostro cronista), gli anni settanta, appunto, della produzione Gaberiana che comincia dal distacco dalla “canzonetta” cabarettistica e dal rifiuto della televisione fino al periodo che chi scrive definisce “metafisico” di album degli anni ottanta, peraltro magnifici, come “Anni affollati”, o “Piccoli spostamenti del cuore”.
L’agile lettura del libro di Mainardi, registra infatti puntualmente l’abbandono di Gaber dallo spettacolo mainstream per dedicarsi, invece, con l’indispensabile collaborazione di Sandro Luporini, al Teatro-Canzone, formula musical/teatrale senza precedenti da lui stesso inventata. Ed è con questa nuova proposta artistica che Gaber assurge a una nuova libertà espressiva attraversando il decennio in questione facendosi cantore di una generazione che passa dall’esaltazione di una promessa di cambiamento radicale dell’uomo e della società al rimpianto, alla delusione (o disillusione della magnifica illusione del titolo) e anche alla rabbia per il mancato mantenimento di quella promessa.
Altra pubblicazione, meno recente ma di pregevole fattura, dedicata al “guitto da palco” è invece “Giorgio Gaber… io mi chiamo G e sono ancora qui...” (Aereostella), libro prevalentemente fotografico di Reinhold Kohl , noto maestro dell’obbiettivo e amico di Gaber, conosciuto oltre che per le sue importanti foto artistiche pubblicate in decine di cataloghi, libri, mostre e riviste, anche nel mondo della musica italiana come autore di copertine di dischi per Jannacci, De Andrè, Tempi duri (Cristiano De André), Massimo Bubola, e lo stesso Gaber.
In questo caso, a differenza del libro di Mainardi, è il decennio successivo quello preso in esame dal fotografo, i suoi scatti degli spettacoli di Gaber durante gli anni ottanta si susseguono catturando tutto il carisma e l’energia che il cantante/attore esprimeva sul palcoscenico ma non è tutto: oltre le immagini un’interessante intervista esclusiva concessa da Gaber a Kohl dopo un anno e mezzo di silenzio con la stampa dopo i feroci attacchi alla strepitosa invettiva di Io se fossi Dio, rimasta inedita per molti anni, si aggiunge alla parte fotografica, così come un intervento della figlia Dalia Gaberscik e la prefazione di Marco Travaglio