il disco più controverso e profetico del Faber nazionale
Di Daniele Bova
1999. Alle soglie del nuovo millennio scompare Fabrizio De Andrè, uno dei giganti della canzone d’autore italiana: poeta dalla sensibilità penetrante che metabolizza i folksinger americani e i chansonnier francesi, contamina suggestioni della tradizione dialettale con temi della letteratura continentale, riesce a dare un peso specifico alla nostra musica “leggera” come nessun altro prima.
E’ l’Ottobre del 1973 quando De Andrè dà alle stampe il suo disco più controverso, frainteso e discusso: “Storia di un impiegato”. Il disco viene accolto in modo tumultuoso negli anni caldi della contestazione, in un Italia che tre anni più tardi processa pubblicamente Francesco De Gregori, reo, anch’esso, di un pensiero indipendente dalle correnti del momento. Lo stesso De Andrè prende le distanze dal suo album, giudicandolo poco riuscito negli intenti poetici e troppo oscuro: dichiara “L’idea del disco era affascinante. Dare del Sessantotto una lettura poetica, e invece è venuto fuori un disco politico. E ho fatto l’unica cosa che non avrei mai voluto fare: spiegare alla gente come comportarsi”.
Ma per fortuna le grandi opere d’arte si sviluppano al di là dell’intenzione e del giudizio dei propri autori, e “Storia di un Impiegato” si afferma negli anni come un disco di portata profetica: più che il valore musicale a sé stante, è il messaggio che fa da leitmotiv all’intero concept quello che risuona di una scottante attualità “anche se voi vi credete assolti, siete lo stesso coinvolti”.
Il racconto delle vicende di un impiegato della media borghesia italiana, delle sue derive “eversive” che sfociano nel riconoscimento del valore della lotta collettiva, si apre con questa “Canzone del Maggio“. Il monito perentorio che stigmatizza chi si crede “assolto”, ma è colpevole di un immobilismo che lo rende “coinvolto”, assume i connotati universali di una denuncia esistenziale: chi non riesce a prendere in mano la propria vita, rompendo la gabbia di vetro dalla quale si limita a guardare e subire passivamente gli eventi esterni, è “per sempre coinvolto“; come viene ribadito da De Andrè nel brano “Nella mia Ora di Libertà“, che chiude l’intero album e si riallaccia in maniera circolare all’incipit dell’opera.
Commettendo il peccato mortale di confondere la portata metaforica dell’opera con la descrizione del mondo reale, la critica punta il dito contro De Andrè da posizioni di sinistra e di destra, nel tentativo fallimentare di sottomettere il linguaggio dell’arte alle proprie categorie politiche. Il fraintendimento generato da questo approccio viene pian piano superato negli anni e “Storia di un Impiegato” assurge all’Olimpo della canzone italiana. Musicato da De Andrè insieme a Nicola Piovani, con la collaborazione per i testi tra lo stesso Faber e Giuseppe Bentivoglio, l’album si dipana tra ritmi sincopati, sintetizzatori e accenti progressivi, folk e arrangiamenti da colonna sonora; in un mosaico fatto di melodia e asperità, tenuto insieme dal timbro unico del cantante genovese, inestimabile patrimonio della cultura nazionale.
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