Dopo otto anni di silenzio il cantautore irlandese pubblica un nuovo album. E il 23 ottobre sarà in concerto a Milano
REYKJAVIK - Sono passati otto anni dall'ultimo album pubblicato e per il suo grande ritorno il cantautore irlandese Damien Rice ha deciso di partire dall'Islanda, una sorta di buen retiro dove ha scritto il nuovo disco, My favourite faded fantasy , in uscita il 4 novembre. "Se non fosse stato per quest'isola, probabilmente non avrei mai finito il disco" dice.
Quarant'anni, nato e cresciuto a Celbridge, vicino Dublino, Rice è una della rare anomalie della scena musicale contemporanea, un artista molto amato, capace di vendere tre milioni e mezzo di copie in tutto il mondo eppure continuare a ignorare lo status di divo, al punto che raramente concede interviste e ai fan non dà autografi o fotografie, preferendo una conversazione o un abbraccio.
"Perché la fama è una cosa fittizia. Non esiste. Se incontro un fan e passo un pomeriggio con lui, alla fine della giornata si renderà conto che siamo solo due esseri umani che hanno trascorso una giornata assieme".
Lei difficilmente concede interviste, sono dieci anni che non ne fa. Perché questa volta ha deciso di parlare?
"Ho smesso di fare interviste perché mi mettevano a disagio. Temevo di creare un personaggio, un altro Damien Rice che non aveva nulla a che fare con me. E poi preferisco suonare che parlare, se devo dire qualcosa mi riesce molto meglio con una chitarra. Una volta finito di registrare l'album però ho sentito che questa volta potevo vivere questi incontri in maniera diversa, a patto che portassi qui, in quest'intervista, ogni lato di me. Soprattutto quelli che non sopporto".
Il suo precedente disco, 9, è uscito nel 2006. Perché ci ha messo così tanto a registrare il nuovo album?
"Credo fossi piuttosto confuso. Ho iniziato a suonare a tredici anni, per me la musica significava innanzitutto gioia, condivisione, desiderio di bellezza. Poi però la mia prima band (i Juniper, ndr) firmò un contratto importante con un'etichetta e mi ritrovai a fare un lavoro. L'aspetto innocente del fare musica era sparito, non c'era più. Così, nel 1998, abbandonai tutto e qualche mese dopo arrivai in Italia, in Toscana, deciso a diventare un contadino. Per me era finito tutto lì".
Poi però cambiò idea...
"Dopo qualche mese passato dentro una fattoria pensai che ero troppo giovane per fare il contadino e sentivo di avere ancora dentro delle canzoni che dovevo registrare. Tornai in Irlanda, deciso a registrare un album e chiudere la carriera. Però pubblicai O, che andò benissimo e mi ritrovai in giro per il mondo a suonare le mie canzoni con un gruppo di persone che adoravo: eravamo felici di ogni piccolo passo che facevamo. La magia si era ricreata, intatta".
Quarant'anni, nato e cresciuto a Celbridge, vicino Dublino, Rice è una della rare anomalie della scena musicale contemporanea, un artista molto amato, capace di vendere tre milioni e mezzo di copie in tutto il mondo eppure continuare a ignorare lo status di divo, al punto che raramente concede interviste e ai fan non dà autografi o fotografie, preferendo una conversazione o un abbraccio.
"Perché la fama è una cosa fittizia. Non esiste. Se incontro un fan e passo un pomeriggio con lui, alla fine della giornata si renderà conto che siamo solo due esseri umani che hanno trascorso una giornata assieme".
Lei difficilmente concede interviste, sono dieci anni che non ne fa. Perché questa volta ha deciso di parlare?
"Ho smesso di fare interviste perché mi mettevano a disagio. Temevo di creare un personaggio, un altro Damien Rice che non aveva nulla a che fare con me. E poi preferisco suonare che parlare, se devo dire qualcosa mi riesce molto meglio con una chitarra. Una volta finito di registrare l'album però ho sentito che questa volta potevo vivere questi incontri in maniera diversa, a patto che portassi qui, in quest'intervista, ogni lato di me. Soprattutto quelli che non sopporto".
Il suo precedente disco, 9, è uscito nel 2006. Perché ci ha messo così tanto a registrare il nuovo album?
"Credo fossi piuttosto confuso. Ho iniziato a suonare a tredici anni, per me la musica significava innanzitutto gioia, condivisione, desiderio di bellezza. Poi però la mia prima band (i Juniper, ndr) firmò un contratto importante con un'etichetta e mi ritrovai a fare un lavoro. L'aspetto innocente del fare musica era sparito, non c'era più. Così, nel 1998, abbandonai tutto e qualche mese dopo arrivai in Italia, in Toscana, deciso a diventare un contadino. Per me era finito tutto lì".
Poi però cambiò idea...
"Dopo qualche mese passato dentro una fattoria pensai che ero troppo giovane per fare il contadino e sentivo di avere ancora dentro delle canzoni che dovevo registrare. Tornai in Irlanda, deciso a registrare un album e chiudere la carriera. Però pubblicai O, che andò benissimo e mi ritrovai in giro per il mondo a suonare le mie canzoni con un gruppo di persone che adoravo: eravamo felici di ogni piccolo passo che facevamo. La magia si era ricreata, intatta".
Quel disco rimase in classifica per quasi due anni e riuscì a vendere oltre due milioni di copie. Se lo aspettava?
"Nessuno di noi si aspettava nulla. Per questo fu meraviglioso. Ma dopo quell'album, iniziarono le pressioni per registrare il seguito, arrivò di nuovo lo stress da lavoro e il gruppo cominciò a disintegrarsi. E io, che dovevo essere felice, non lo ero. Per questo, dopo quell'esperienza, ho deciso di prendermi tutto il tempo che mi sarebbe servito per tornare alla gioia del fare musica".
Perché ha scelto proprio l'Islanda per ripartire?
"Avevo bisogno di un posto in cui non sentire pressione, in cui potessi starmene a casa, invitare gli amici, suonare per il gusto di farlo. Ci è voluto un po' di tempo perché tutto ritornasse a essere spontaneo, ma alla fine ci sono riuscito. In questi anni però ho anche cambiato modo di pensare, di vivere la mia vita. Un tempo facevo la vittima, sentivo tutto il mondo ostile, adesso invece sono aperto a ogni opportunità. So di poter essere l'uomo più sensibile del mondo o il più idiota. Allo stesso tempo. Ed è una liberazione".
Lei è amato da molti suoi colleghi, da Thom Yorke dei Radiohead a Bono degli U2. Chi è il suo riferimento?
"Probabilmente Leonard Cohen, un uomo meraviglioso. Ho avuto il privilegio di aprire alcuni concerti per lui e incontrarlo è stata un'esperienza molto forte. Lui, più di altri, mi ha insegnato a usare le canzoni per svelare i lati più oscuri di me e viverli con consapevolezza. Ho imparato molto da lui, dalla sua umanità, dalla sua enorme semplicità".
I biglietti per il suo unico concerto italiano, il 23 ottobre a Milano, sono andati esauriti in due giorni. Come vive il fatto di essere una star per molte persone?
"Se me lo avesse chiesto dieci anni fa, le avrei risposto di avere parecchi problemi a riguardo. Oggi no, è una cosa che capisco, e profondamente. In fondo io stesso ho vissuto questa fascinazione per molti cantanti, con Cohen, per esempio. Ma la mia risposta è che non sono io, ma è la mia musica ad arrivare alle persone. Loro possono credere che sia Damien Rice a farlo, ma non è così. Io sono solo il tramite".
Impiegherà altri otto anni per il nuovo disco?
"No, al contrario. Voglio iniziare a registrare il quarto album prima possibile. Ho già molte canzoni che aspettano solo di essere finite".



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