domenica 14 luglio 2019

Il pianeta umano nella trappola del progresso


Ogni anno spostiamo più rocce, suoli e sedimenti di quanto facciano i processi naturali. Per fare spazio a campi e pascoli abbiamo dimezzato gli alberi, mentre negli ultimi quarant’anni le popolazioni di pesci, anfibi, rettili, uccelli e mammiferi sono diminuite in media del 60%. E come se non bastasse, a furia di sputare gas serra in atmosfera abbiamo detto addio al periodo di clima mite e stabile degli ultimi 10.000 anni.
Simon L. Lewis e Mark A. Maslin, scienziati dell’University College London e autori del saggio “Il pianeta umano” (Einaudi, 2019), non hanno dubbi: siamo diventati una forza della natura capace di modellare la Terra. Al punto che si può parlare di una nuova epoca geologica, l’Antropocene, l’epoca dell’uomo: «Dopo quasi 500 anni di crescente irrilevanza cosmica, le persone sono tornate al centro dell’universo».
 
 
 
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Niente di cui andare troppo fieri, comunque. L’epoca che stiamo vivendo, avvertono gli autori, rischia infatti di essere il capolinea dello sviluppo umano. Per spiegarsi si rifanno al concetto di trappola del progresso elaborato dallo scrittore Ronald Wright. Se un gruppo di cacciatori impara a uccidere una grossa preda, per loro è un bene. Se riesce a ucciderne due in una sola battuta di caccia, meglio ancora. Se ne uccide centinaia in un sol colpo incendiando la foresta per spingere le prede giù da un dirupo, quei cacciatori vivranno meglio di chiunque altro. Ma a lungo andare potrebbero restare senza prede né cibo. I cacciatori sono incappati in una trappola del progresso. È quel che sta accadendo anche a noi con il riscaldamento globale: i combustibili fossili sono una trappola del progresso.
Mentre la comunità scientifica si accapiglia sulla definizione formale di Antropocene (e non sarà uno scherzo, giacché per gli accademici le definizioni formali sono una cosa seria), per i nostri due autori è invece già tempo di chiedersi cosa fare di questo enorme potere che abbiamo acquisito.
Nel tentativo di dare una risposta, Lewis e Maslin ripercorrono la storia umana alla ricerca degli snodi cruciali che hanno portato all’Antropocene – è questa la parte più interessante dell’opera, riccamente documentata – fino a proporre una data precisa per il suo inizio: il 1610, in corrispondenza dell’ultimo periodo di grande freddo.
Fu infatti con la globalizzazione dei commerci marittimi che, in una manciata di secoli, i continenti si trovarono riuniti in una nuova Pangea, annullando l’azione compiuta dalla tettonica a placche in 200 milioni di anni e innescando una cascata di eventi – a partire dall’omogeneizzazione della biodiversità – destinati a durare milioni di anni, traccia indelebile del nostro ingombrante passaggio.


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Come ammettono gli stessi autori, la scelta di far coincidere l’Antropocene con la modernità, sebbene fondata su solide argomentazioni scientifiche, non è affatto neutra. Significa infatti ricondurre i nostri guai ambientali a un’epoca segnata dal connubio tra lo sviluppo scientifico e il progetto europeo di colonizzazione, schiavismo e sfruttamento delle risorse di cui si è nutrito il capitalismo mercantile, precursore di quel capitalismo industriale in cui siamo immersi fino al collo.
Guardare in faccia la cruda realtà dell’Antropocene è tuttavia essenziale per non restare vittime della trappola del progresso. In fondo, concludono gli autori, a differenza della tettonica a placche, il nostro potere è riflessivo: può essere usato, modificato e persino in gran parte revocato.
Senza però dimenticare che la sua gestione, così come le responsabilità della crisi ambientale, finora è stata faccenda di una ristretta minoranza di persone, più che dell’umanità nel suo complesso. L’Antropocene, in altre parole, è anche una storia di dominazione e ripropone un'urgente questione di giustizia fra classi sociali, Paesi del nord e del sud del mondo, e persino generazioni.
 
Da
 
 
 

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